Cammina la gente
in piazza del duomo, o forse soltanto cerca di evitare i piccioni e i venditori
ambulanti, può essere così frenetica di sua sponte? Forma capannelli, perché
non capanne? Scatta, anche fotografie, fugge senza lasciare altra traccia che
l’impercettibile assottigliamento del selciato: un velo di polvere sulla
pavimentazione della storia; scopre nuovi strati di roccia sedimentaria posati
a proteggerla dal fango in cui forse sarebbe meglio che si immergesse di tanto
in tanto.
Mi illudo che ci
sia un senso in tutto questo agitarsi mentre torno con la mente a momenti che
credevo felici, là nel passato mentre li vivevo, momenti che, come questi passi
a cui sto assistendo, si sono tramutati in polvere. Polvere da soffiare via,
polvere che brucia negli occhi e mi impedisce di vedere il futuro o per lo meno
un futuro in cui valga la pena di vivere.
Vorrei mettermi
in cammino anche io, quindi; fuggire come tutta questa gente in una direzione
qualunque, abradere un poco di selciato e asfalto con la mia fuga, illudendomi
che il nonsenso sia grasso, sgraziato, goffo e lento, ma so che senso e
nonsenso sono in me, nel più solipsistico dei modi e dei mondi; io sono il
metro di ogni significato, la sua chiave: posso correre quanto mi pare, ma non
sfuggirò.
Non dovrei dire
nonsense – il nonsense è la sana, ironica ribellione contro la mancanza di
senso, è l’affermazione paradossale che ti educa, che porta la mancanza di
senso in prima pagina per fartela vedere, che non ti indica un cammino giusto
(sceglietevelo da soli, siete adulti e vaccinati), ma un tema su cui varrebbe la
pena di fermarsi e riflettere. Dovrei dire mancanza di senso.
Con questo buco
dentro la gente continua a camminare, i piccioni a volare. Io sorseggio
lemonsoda e mi accorgo soltanto in quel momento che ho freddo al sedere, questi
tre gradini di fronte alla facciata del duomo sono ghiacciati nonostante il
sole invernale e l’attrito sul selciato di tutte queste fughe.
È quell’ora delle
sere d’inverno in cui la luce si attarda radente a scherzare coi coppi
implotonati e diacci, gioca a nascondino. All’incrocio tra la piazza, via
Torino e via Orefici una scia dorata fa il solletico alle tegole, prima che il sipario
ondeggiante di ombra si posi su tutto, quasi frusciando, col suono lieve di un
ripensamento.
È l’ora in cui i
venditori ambulanti cambiano articolo: ripongono i braccialetti che quasi ti
regalano ed estraggono le mirabolanti eliche a led blu che sparano in cielo come
fionde – tornano a terra come elicotteri. Calato il sipario del sole, quasi
come ad un segnale stabilito, tornano le nuvole; la foschia si addensa. Rimetto
il portatile nello zaino e mi avvio, non voglio stare in questa piazza quando
le uniche stelle in cielo saranno quei led impazziti sparati in cielo da
elastici.
Mi calco il
berretto in testa, mi dico anche che se uno di quegli ambulanti mi abborderà
per l’acquisto bofonchierò qualcosa tipo “get
out of my fucking way” fingendo di non essere indigeno, ma alla fine,
abbordato, non lo faccio: il silenzio è molto più eloquente di me e io, forse,
almeno oggi, non così incazzato.
Scendono quelle
lacrime blu dal cielo, il loro attorcigliarsi su loro stesse mi dà le
vertigini, strappa lacrime anche a me, incongruamente. Attraverso la folla e le
sue mille fughe divergenti con gli occhi lucidi e la visiera a proteggermi. Nel
dubbio abbasso la testa e non mi facco vedere. Cammino – pare io non sappia far
altro di recente.
E poi, forse,
luce. I mesi passano come sanno fare, un risveglio dopo l’altro mentre il
grigio scolora nell’azzurro. La primavera sta arrivando; dalla coltre bianca
dell’inverno che lo ha preceduto sono sbocciati come bucaneve incongrui e
sgargianti i nostri messaggi, telefonate ciancicate in inglese che hanno
lottato contro il ritardo di mezzo mondo che ci divide e tutti gli anni che ci
hanno visti lontani.
È strano,
stranamente familiare e allo stesso tempo inquietante sapere che nonostante il
tempo che è passato tu sei ancora dentro di me; io ti lasciai quando quel mezzo
mondo di distanza per me era diventato insopportabile, quando la quotidianità
che mi circondava era così più facile da afferrare – il cuore vuole il piacere,
come dice il titolo di quel pezzo dalla colonna sonora a “Lezioni di piano” – quando tutto sembrava (e in parte era)
difficile.
Il piacere venne e
se ne andò, l’amore (o presunto tale) pure, rivelandosi per la chimera che era:
più di una volta non resse alla vita vera dalla quale era nato, agli incontri
dai quali era scaturito. Tu invece sei rimasta sempre dentro. Sempre l’ho saputo
anche se non l’ho mai ammesso, sempre ti ho sentita anche se non ne ho mai
parlato, fino ad ora, fino a questo fiorire di bucaneve che hanno scacciato il
gelo e il grigio, che si accendono dei colori della tua terra e del tuo calore,
del nostro non esserci mai augurati l’un l’altro nient’altro che il bene – io mi
sarei meritato tutt’altro, io traditore, io idiota inseguitore di piaceri
immediati, preludio a bastonate che ho preso, e con gli interessi.
Non so se siano
state quelle bastonate a farmi capire, so soltanto che all’equinozio mancano
due settimane e che tre soli giorni mancano invece alla mia personale mia
primavera, al giorno in cui finalmente ti abbraccerò di nuovo, senza sapere per
quanto. Non voglio saperlo adesso, né voglio chiedertelo mentre mezzo mondo
ancora ci divide. Voglio leggertelo negli occhi scuri e vicini, farlo leggere a
te nell’immediatezza di una carezza sospirata per troppi anni, avvertirlo in un
sospiro.
Allora sapremo,
allora forse capiremo se nel futuro, e in quale, potremo vivere.
Basta questo
pensiero ad allontanarmi di mezzo mondo da quella sera d’inverno nella quale ho
cominciato a scrivere, su quel freddo gradino di marmo che mi raffreddava il
culo nonostante un sole ostinato e obliquo. Basta questo a sorridere per i
prossimi tre giorni – e quando ci vedremo saprò se e come continueranno questi
sorrisi. So che in qualche modo comunque continueranno perché il privilegio di
averti trovata e non perduta, di averti ritrovata basterà a portarne per una
vita intera, sia che si possa escogitare o meno un modo di vivere il nostro amore;
amore che non ha mai realmente smesso di esistere, nonostante le mie e forse
anche tue sbandate sbagliate.
Inutile chiedersi
se i nostri rispettivi fallimenti siano figli del nostro stesso amore
interminato, l’importante ora è far battere di nuovo i nostri cuori a pochi
centimetri di distanza – solo allora, solo loro, sapranno cosa fare del nostro
futuro.
Aspettami,
arrivo.
Bucaneve Sgargianti by Dario Beltrami is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported License.
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