Sunday, March 4, 2012

Bucaneve Sgargianti


Cammina la gente in piazza del duomo, o forse soltanto cerca di evitare i piccioni e i venditori ambulanti, può essere così frenetica di sua sponte? Forma capannelli, perché non capanne? Scatta, anche fotografie, fugge senza lasciare altra traccia che l’impercettibile assottigliamento del selciato: un velo di polvere sulla pavimentazione della storia; scopre nuovi strati di roccia sedimentaria posati a proteggerla dal fango in cui forse sarebbe meglio che si immergesse di tanto in tanto.

La folla esibizionista, la follia esibita, l’inibizione nascosta, ma latente, tutto mi parla di strati su strati su strati di significati o della loro assenza. Il nonsenso si avverte comunque, traspare chiaro come questa giornata di sole invernale, vagamente velata da quel filo di smog che respiro oltre alle sigarette e alla noia. Per noia - non per passione - fumo; vivo inseguendo la consunzione.

Mi illudo che ci sia un senso in tutto questo agitarsi mentre torno con la mente a momenti che credevo felici, là nel passato mentre li vivevo, momenti che, come questi passi a cui sto assistendo, si sono tramutati in polvere. Polvere da soffiare via, polvere che brucia negli occhi e mi impedisce di vedere il futuro o per lo meno un futuro in cui valga la pena di vivere.

Vorrei mettermi in cammino anche io, quindi; fuggire come tutta questa gente in una direzione qualunque, abradere un poco di selciato e asfalto con la mia fuga, illudendomi che il nonsenso sia grasso, sgraziato, goffo e lento, ma so che senso e nonsenso sono in me, nel più solipsistico dei modi e dei mondi; io sono il metro di ogni significato, la sua chiave: posso correre quanto mi pare, ma non sfuggirò.

Non dovrei dire nonsense – il nonsense è la sana, ironica ribellione contro la mancanza di senso, è l’affermazione paradossale che ti educa, che porta la mancanza di senso in prima pagina per fartela vedere, che non ti indica un cammino giusto (sceglietevelo da soli, siete adulti e vaccinati), ma un tema su cui varrebbe la pena di fermarsi e riflettere. Dovrei dire mancanza di senso.

Con questo buco dentro la gente continua a camminare, i piccioni a volare. Io sorseggio lemonsoda e mi accorgo soltanto in quel momento che ho freddo al sedere, questi tre gradini di fronte alla facciata del duomo sono ghiacciati nonostante il sole invernale e l’attrito sul selciato di tutte queste fughe.

È quell’ora delle sere d’inverno in cui la luce si attarda radente a scherzare coi coppi implotonati e diacci, gioca a nascondino. All’incrocio tra la piazza, via Torino e via Orefici una scia dorata fa il solletico alle tegole, prima che il sipario ondeggiante di ombra si posi su tutto, quasi frusciando, col suono lieve di un ripensamento.

È l’ora in cui i venditori ambulanti cambiano articolo: ripongono i braccialetti che quasi ti regalano ed estraggono le mirabolanti eliche a led blu che sparano in cielo come fionde – tornano a terra come elicotteri. Calato il sipario del sole, quasi come ad un segnale stabilito, tornano le nuvole; la foschia si addensa. Rimetto il portatile nello zaino e mi avvio, non voglio stare in questa piazza quando le uniche stelle in cielo saranno quei led impazziti sparati in cielo da elastici.

Mi calco il berretto in testa, mi dico anche che se uno di quegli ambulanti mi abborderà per l’acquisto bofonchierò qualcosa tipo “get out of my fucking way” fingendo di non essere indigeno, ma alla fine, abbordato, non lo faccio: il silenzio è molto più eloquente di me e io, forse, almeno oggi, non così incazzato.

Scendono quelle lacrime blu dal cielo, il loro attorcigliarsi su loro stesse mi dà le vertigini, strappa lacrime anche a me, incongruamente. Attraverso la folla e le sue mille fughe divergenti con gli occhi lucidi e la visiera a proteggermi. Nel dubbio abbasso la testa e non mi facco vedere. Cammino – pare io non sappia far altro di recente.

E poi, forse, luce. I mesi passano come sanno fare, un risveglio dopo l’altro mentre il grigio scolora nell’azzurro. La primavera sta arrivando; dalla coltre bianca dell’inverno che lo ha preceduto sono sbocciati come bucaneve incongrui e sgargianti i nostri messaggi, telefonate ciancicate in inglese che hanno lottato contro il ritardo di mezzo mondo che ci divide e tutti gli anni che ci hanno visti lontani.

È strano, stranamente familiare e allo stesso tempo inquietante sapere che nonostante il tempo che è passato tu sei ancora dentro di me; io ti lasciai quando quel mezzo mondo di distanza per me era diventato insopportabile, quando la quotidianità che mi circondava era così più facile da afferrare – il cuore vuole il piacere, come dice il titolo di quel pezzo dalla colonna sonora a “Lezioni di piano” – quando tutto sembrava (e in parte era) difficile.

Il piacere venne e se ne andò, l’amore (o presunto tale) pure, rivelandosi per la chimera che era: più di una volta non resse alla vita vera dalla quale era nato, agli incontri dai quali era scaturito. Tu invece sei rimasta sempre dentro. Sempre l’ho saputo anche se non l’ho mai ammesso, sempre ti ho sentita anche se non ne ho mai parlato, fino ad ora, fino a questo fiorire di bucaneve che hanno scacciato il gelo e il grigio, che si accendono dei colori della tua terra e del tuo calore, del nostro non esserci mai augurati l’un l’altro nient’altro che il bene – io mi sarei meritato tutt’altro, io traditore, io idiota inseguitore di piaceri immediati, preludio a bastonate che ho preso, e con gli interessi.

Non so se siano state quelle bastonate a farmi capire, so soltanto che all’equinozio mancano due settimane e che tre soli giorni mancano invece alla mia personale mia primavera, al giorno in cui finalmente ti abbraccerò di nuovo, senza sapere per quanto. Non voglio saperlo adesso, né voglio chiedertelo mentre mezzo mondo ancora ci divide. Voglio leggertelo negli occhi scuri e vicini, farlo leggere a te nell’immediatezza di una carezza sospirata per troppi anni, avvertirlo in un sospiro.

Allora sapremo, allora forse capiremo se nel futuro, e in quale, potremo vivere.
Basta questo pensiero ad allontanarmi di mezzo mondo da quella sera d’inverno nella quale ho cominciato a scrivere, su quel freddo gradino di marmo che mi raffreddava il culo nonostante un sole ostinato e obliquo. Basta questo a sorridere per i prossimi tre giorni – e quando ci vedremo saprò se e come continueranno questi sorrisi. So che in qualche modo comunque continueranno perché il privilegio di averti trovata e non perduta, di averti ritrovata basterà a portarne per una vita intera, sia che si possa escogitare o meno un modo di vivere il nostro amore; amore che non ha mai realmente smesso di esistere, nonostante le mie e forse anche tue sbandate sbagliate.

Inutile chiedersi se i nostri rispettivi fallimenti siano figli del nostro stesso amore interminato, l’importante ora è far battere di nuovo i nostri cuori a pochi centimetri di distanza – solo allora, solo loro, sapranno cosa fare del nostro futuro.

Aspettami, arrivo.

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