Sunday, November 27, 2011

Oasi nell’Insonnia


Nei pressi di Rochester, NY (USA)

Ti tiene sveglio la notte, aver perso ogni fiducia nel mondo.
Ti toglie il cuore, aliena gli occhi dallo specchio; diventi invisibile a te stesso, oscuro vampiro fin troppo evidente a tutti gli altri.
Ti mette sete di speranza e forse pure di vendetta proprio perché hai perso ogni speranza.
Ti divora di sigarette e occhiaie, di eterni dormiveglia in cui entri ed esci continuamente, un’infinita successione di sussulti. Eternamente cadi nel momento e ti sorprendi di dove sei, di cosa stai facendo; quasi per reazione e nausea ripiombi nel dormiveglia – è meglio del suo contrario.

C’è un punto in tutto ciò? Un senso? Se c’è non l’ho ancora trovato, ma forse è perché non sono abbastanza lucido per capire, disperso in questo deserto di dune e valli di veglia e sonno e tempeste che fan scomparire le une nelle altre – ci vorrebbe l’equivalente onirico di un dromedario per uscire da questo Sahara.
E così devi camminare, sfuggire, cercare l’esaustione senza troppa convinzione, sperare anche che tutto questo camminare ti faccia pure dimagrire, potrebbe servire se non altro a riuscire ad allacciarti le scarpe senza troppa fatica e continuare la tua infinita fuga.
E così cammini, lo fai finché ti reggono le gambe perché questo blues è come un cane: ha bisogno di essere sceso e camminato (non so se pisciato, pure), fino allo sfinimento
Cerchi la freschezza dei tuoi due anni, la freschezza di entusiasmarti per ogni novità, ma ti scontri con quelli che porti sulle spalle e il loro peso di disillusione e conseguente schifo, inazione, sfiducia.
L’ironia è l’unico antidoto per poter funzionare e non appesantire – ci son già abbastanza musi lunghi in giro (o falsamente tali, tanto per darsi un tono) e non c’è proprio bisogno di aggiungere a questa teoria di funerali pure il tuo.
Fai il buffone più che puoi; tutti i comici in realtà sono depressi o maniaco depressivi. Sfoghi la tua mania in battute ardite, ridi sguaiato, spingi le metafore colorite al limite del buongusto, nel surreale, lasci correre la mente aiutato dal tuo continuo contatto col sogno che ti fa surfare sulla coscienza come se fossi sull’oceano, in cima alle onde schiumose.
Purtroppo, però, l’ironia non incontra. Si prendono tutti così sul serio. Tipo questo coglione appoggiato al muro.
Mi sono risvegliato di botto in questa platea durante l’intervallo tra il secondo e il terzo atto di uno spettacolo stupendo (devo averlo visto per averlo capito): Arlecchino servitore di due padroni. Il coglione indoaa sguardo intenso e sciarpetta bianca; buca la folla spogliando con la sua intensità le fanciulle guardabili che si aggirano per la sala.
Questo superdivo degli intervalli continua a fissare gli astanti dal suo podio di supponenza autoreferenziale, non ha capito ancora che quelli che recitano nella vita e non sul palco fanno schifo; non parlo della qualità della prestazione attoriale, che con preoccupante regolarità è ottima, da Oscar, ma del fatto recitare è un mestiere da palco, non da marciapiede.
Non riesco a trattenere il sorriso ogni volta che poso lo sguardo sul superdivo de no’ artri; lui quasi pare accorgersene, ma nulla può toccare la sua infima superiorità imbellettata di nulla. Grazie al cielo il tecnico luci e la compagnia hanno pietà di tutti noi, perforati da quello sguardo, e ci traghettano nel buio e nel terzo atto. Mi immergo nella meraviglia del teatro vero, ma il cervello multitasking non se ne sta mai zitto – lavora su più livelli, è delfino che dorme a emisferi cerebrali alterni, sogna mentre nuota, nuota sognando: questo ti fa l’insonnia.
Quindi Arlecchino salta come non ho visto mai un ottuagenario fare (e Ferruccio Soleri, l’Arlecchino, ottuagenario lo è), mentre io continuo a divagare.
La serietà o presunta tale fine a sé stessa mi circonda, quando altro non è che una facciata per gente che si fa i cazzi propri dandosi un gran daffare per apparire... Nemmeno per apparire in qualche modo particolare, ma semplicemente apparire, pellicola inconsistente a ricoprire il nulla, ma che, mentre lo ricopre, lo fa con tutta la gravità e pomposità che si conviene... forse proprio a chi nulla ha da dire.
Mi dispera ancora di più questo deserto di apparenza – remo contro (romolerei pure contro, se ci fosse quel verbo) come un clown senza cerone oppongo alla seriosità la mia ironia – solamente a tratti disperata, spero. Odio sprofondare nel mugugno, imporre agli altri le mie piogge salate.
Falsità, appunto. Seriosità più che serietà. Si può prendere la vita seriamente senza diventare mortalmente noiosi, si può ridere di tutto e se non lo si riesce a capire, be’, allora forse proprio in quel caso il problema si fa serio. Tant’è, son circondato da gente che scambia la serietà con la seriosità che non è una parola ma rende l’idea. È un po’ come scambiare la moralità con Berlusconi: all’inizio si presenta bene in doppiopetto blu, ma gratta gratta ed esce il bunga-bunga. Che vergongna.
Che inutile marea nera; anche quella mi sommerge e mi toglie fiducia.
Reagisco diventando surreale nei modi, fregandomene delle convenzioni, dicendo pane al pane.
La cosa non incontra. Per niente.
Così quando ti accorgi che nemmeno l’ironia funziona e non hai nessuno intorno, ti trascini senza meta perché i sonni e i sogni ad occhi aperti non ne hanno, e contro quel vento cerchi di navigare di bolina, portare i tuoi passi (spesso senza troppo successo) verso le oasi in cui almeno riesci a sorridere.
Oggi ci sono arrivato e mi sento meglio.
Devo costellare la mia vita di oasi in cui respirare profondo, credo che in questi luoghi potrei anche dormire, se non fosse troppo interessante interagire con chi le abita. Gente come me? Non so, mi basta sapere che lì non sono fuori luogo. Posti dove fiorisce la serietà senza gravità, dove l’ironia va a braccetto con la profondità, la cultura che non ostenta sé stessa, la libertà mentale.

Case come quelle della mia amica del cuore che per la profondità del rapporto e l’intimità viene sempre (e con seriosa, fuori luogo, pesantezza) scambiata per una relazione d’amore (cosa che è, come tutte le amicizie vere e sincere), 
Un emerito sconosciuto di passaggio
 prende il caffé a casa mia
spazi come la Libreria del Mondo Offeso dove respiro aria fresca e idee nuove, dove Marco e Laura sono cibo per la mente e il cuore e da dove sto scrivendo anche adesso; casa mia quando si trasforma in porto di mare e accoglie persone che, se non sono vere e sincere alla fine vengono semplicemente scremate e non tornano.


In queste oasi ci ristoriamo e recuperiamo le forze. Quando le lasciamo ci rituffiamo nel deserto e là non si spegne mai la voglia, la speranza di fecondarlo di noi e farne fiorire almeno un pezzetto, vederci sbocciare corolle di sorrisi, sorrisi che il deserto dei seriosi senza dubbio non approverà.
Si perché si può essere seri senza essere seriosi.

Quindi, frivolezza. Frivolezza che si fugge tuttavia, frivolezza da preservare per sopravvivere di sorrisi... Non sono frivolo nel modo in cui lo intendono i seriosi, sono diversamente serio.
Nell’ironia trovo la mia salvezza, la mia dimensione, esco dallo schema falsamente grave in cui tutto ciò che mi circonda pare volermi seppellire.
Sono diversamente serio, ma non lo ostento; di sicuro me ne si farà una colpa e non verrò capito, ma l’alternativa che si prende sul serio mi precipiterebbe irrimediabilmente nel baratro di sfiducia nel quale mi ero svegliato solo poche ore fa, dopo aver lottato e faticato, manco fossi andato a zappare, per riuscire a dormire soltanto un paio d’ore: che paradosso! Morfeo fa il difficile e bisogna inseguirlo.
Quindi, no, non sono semplicemente frivolo come pensa il deserto dei seriosi; sono diversamente serio e, cazzo, sia che stia nelle mie oasi o nella desolazione che le circonda, me ne vanto.

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